Nanga Banù
Per ricostruire la narrazione della fondazione del villaggio di Bandiagara nel Mali, in occasione della celebrazione del rituale che deve aver luogo ogni quaranta anni, e per poter riprodurre esattamente i singoli episodi della fondazione, gli anziani Dogon devono percorrere per anni l’altopiano alla ricerca dei frammenti depositati nella memoria dei vecchi.
La narrazione dogon degli inizi, estremamente complessa per la quantità di eventi e di esseri che vi compaiono, è frammentata in una grande varietà di episodi e di versioni. Non esiste una narrazione univoca: neppure gli specialisti, tra i Dogon, sono oggi in grado di recitarla. Quel che conoscono e che possono ricostruire sono le porzioni legate ai rituali.
Il cacciatore Nanga Banù fu inviato a cercare un luogo propizio per stabilire il nuovo villaggio. Con l’atto simbolico di appendere la bisaccia alla biforcazione di un albero, Nanga Banù ritaglia un primo “luogo umano” nella natura selvatica. Il cacciatore è un iniziando, che ha il compito di esplorare lo spazio selvatico che avvolge come una nebulosa quello umano, e che è dominio di animali, delle presenze immateriali dei defunti, e degli Ogulu Belèm, “esseri dei luoghi vuoti”, nati per colpa di Ogò che, appropriatosi di un frammento della placenta-madre prima che la gestazione fosse compiuta alterando il tempo naturale, viene trasformato in Yurugù, la volpe pallida simbolo dell’opposizione alla linearità delle regole.
La creazione, che a causa della colpa di Ogò è “andata male”, cioè diversamente da quanto avrebbe voluto Ama per gli uomini -immortalità e assenza di malattie-, ha avuto come conseguenza l’opposizione fondamentale tra esseri umani, del mondo abitato, e esseri non umani, Ogulu Belèm, “esseri dei luoghi vuoti”. Invisibili alla maggior parte degli uomini, e dotati di caratteri terrificanti, perennemente in attesa, esigono offerte, sacrifici di sangue, preghiere e rituali collettivi a loro rivolti.
E non soddisfatti inviano mali.
A parte il deperimento dovuto alla vecchiaia, tutte le altre malattie sono “inviate” dai “signori dei luoghi vuoti” o incontrate frequentando, senza le necessarie precauzioni, lo spazio non umano, territorio pericoloso che appare però essere anche l’inevitabile luogo della conoscenza. È qui, infatti, nello spazio fuori dai limiti precisi del mondo geometrico e ordinato del villaggio, che l’iniziando deve inoltrarsi per poter stabilire forme di contatto con i suoi numi e penetrare le sue profondità, per acquisire il potere di persuaderli a concedergli la possibilità di appropriarsi di parte di quello spazio.
(Per approfondire l'argomento: B. Fiore e T. Russo, Linguaggio rituale e divinazione, in Forme di Vita - Rivista di filosofia, marzo 06, Edizioni Derive Approdi, Roma)
La narrazione dogon degli inizi, estremamente complessa per la quantità di eventi e di esseri che vi compaiono, è frammentata in una grande varietà di episodi e di versioni. Non esiste una narrazione univoca: neppure gli specialisti, tra i Dogon, sono oggi in grado di recitarla. Quel che conoscono e che possono ricostruire sono le porzioni legate ai rituali.
Il cacciatore Nanga Banù fu inviato a cercare un luogo propizio per stabilire il nuovo villaggio. Con l’atto simbolico di appendere la bisaccia alla biforcazione di un albero, Nanga Banù ritaglia un primo “luogo umano” nella natura selvatica. Il cacciatore è un iniziando, che ha il compito di esplorare lo spazio selvatico che avvolge come una nebulosa quello umano, e che è dominio di animali, delle presenze immateriali dei defunti, e degli Ogulu Belèm, “esseri dei luoghi vuoti”, nati per colpa di Ogò che, appropriatosi di un frammento della placenta-madre prima che la gestazione fosse compiuta alterando il tempo naturale, viene trasformato in Yurugù, la volpe pallida simbolo dell’opposizione alla linearità delle regole.
La creazione, che a causa della colpa di Ogò è “andata male”, cioè diversamente da quanto avrebbe voluto Ama per gli uomini -immortalità e assenza di malattie-, ha avuto come conseguenza l’opposizione fondamentale tra esseri umani, del mondo abitato, e esseri non umani, Ogulu Belèm, “esseri dei luoghi vuoti”. Invisibili alla maggior parte degli uomini, e dotati di caratteri terrificanti, perennemente in attesa, esigono offerte, sacrifici di sangue, preghiere e rituali collettivi a loro rivolti.
E non soddisfatti inviano mali.
A parte il deperimento dovuto alla vecchiaia, tutte le altre malattie sono “inviate” dai “signori dei luoghi vuoti” o incontrate frequentando, senza le necessarie precauzioni, lo spazio non umano, territorio pericoloso che appare però essere anche l’inevitabile luogo della conoscenza. È qui, infatti, nello spazio fuori dai limiti precisi del mondo geometrico e ordinato del villaggio, che l’iniziando deve inoltrarsi per poter stabilire forme di contatto con i suoi numi e penetrare le sue profondità, per acquisire il potere di persuaderli a concedergli la possibilità di appropriarsi di parte di quello spazio.
(Per approfondire l'argomento: B. Fiore e T. Russo, Linguaggio rituale e divinazione, in Forme di Vita - Rivista di filosofia, marzo 06, Edizioni Derive Approdi, Roma)
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